CAMBIARE VITA
Hugh e Sophie si conobbero a Damasco. La rivoluzione non
aveva ancora travolto la dittatura, e la vita era esotica tra i vicoli della
vecchia Medina. Sophie amava trascorrere i pomeriggi a leggere nel cortile
della moschea Ummayide; Hugh a bere il tè nel suo con i mercanti. Studiava
arabo e lo praticava esercitandosi nei mufawadat, i mercanteggiamenti. Gli dava
gusto sapere di quanto, se avesse comprato, lo avrebbero fregato. Erano
arrivati con vaghi sogni di gloria, lei da Parigi, lui da Londra, alla ricerca
di emozioni e collaborazioni con giornali. Vennero. La fortuna è un mix di
ossessione e tempismo; essere appassionati nel posto giusto, in un qualche
momento fatale. Loro lo erano. Una sera vagarono per ore senza dire una parola,
i loro passi risuonarono, sazi, fino alla cima del monte Qasiyun. Sophie pensò
che quello era l’amore: un uomo disponibile all’esplorazione, felice di
avanzare in un’incerta direzione. «Life is a working in progress», pensava
Sophie. La vita è un cantiere.
Hugh andò in guerra, in Iraq e in Libano e la sua firma comparve sul
Guardian e sul Times di Londra. Sophie girò documentari e s’innamorò
dell’incredibile arte calligrafa degli arabi. Poi venne la guerra. I posti di
blocco, l’ansia, “gli eventi”, le crisi, i massacri. Girarono un documentario
sugli artisti siriani; una rappresentazione satirica di come sia possibile
resistere con la cultura. Si trasferirono a Beirut, e regalarono vestiti ai
profughi, in trappola e all’addiaccio, nella valle della Bekaa. Essendo
intelligenti, si fecero domande. «Che cosa voglio?» si chiese Hugh. «Che cosa
conta?» s’interrogò Sophie. La gloria, in giornalismo, l’assicura la guerra.
Prime pagine, copertine, lo spettacolo dell’orrore che si ripete, senza fine.
Hugh si disse che non gliene importava niente, della fama. Aveva dimostrato a
se stesso, e a suo padre, di valere qualcosa. E ora? Sophie rispose che, dopo
aver sperimentato la follia degli uomini, sarebbe stato bello dedicarsi alla
natura. Ma che paura. Ricominciare. Di nuovo? Le crisi, tutte le crisi, epocali
o triviali che siano, ci pongono davanti a un muro. Hugh e Sophie avrebbero
potuto scegliere, per inerzia, di fare della loro vita il corollario di una
tragedia continua. Li abbiamo visti i colleghi anziani, ubriacarsi con metodo,
tutte le sere, al bar del Saint George Hotel.
L’altro giorno ho ricevuto una mail di Hugh. Il titolo era: «Vendo il mio
giubbotto antiproiettile». Cliccavo, incuriosita e leggevo, nella prima riga:
nel 2013 da Beirut a Galle, Guest House sul mare dentro un faro in Sri
Lanka. Bello no? E guardate che sono persone normali. Forse solo un
po’ più coraggiose, e un po’ più sane. Vi auguro la stessa intrepidezza, la
stessa sanità mentale.